È un mese che
abitiamo in questa casa. È vecchiotta, è vero. Si è presentata in tutta la sua
precarietà dal primo momento. Non ha un armadio a muro. Il pavimento
scricchiola e il camino fischia. Il lavandino è minuscolo e o ti bruci o
congeli per lavare le stoviglie. Ma solo oggi ho appeso ai muri, un po’
ingialliti, alcune fotografie che mi porto dietro da mesi. È come un rituale
che si ripete, un’espirazione a polmoni pieni che decreta l’avvenuto assestamento.
È l’ottava casa che cambiamo da quando siamo down under. È l’ennesima
sistemazione che ci porta valige mezze piene tra i piedi e cavi, lenzuola,
cartoni del latte zeppi di utensili di ogni tipo.
Una volta una persona
che non mi conosce affatto mi ha detto, presa dal bisogno di giudicare senza
capire, che non sono in grado di adattarmi. Tutti sono in grado di adattarsi
quando si spostano continuamente, quando hanno sempre le valige pronte e rotoli
di scotch sempre nuovi. Ma io ho bisogno del livello successivo anche quando so
che dovrò lasciare un posto per un altro. Ho bisogno di sentirlo mia. Ho
bisogno che porti almeno un segno di me che me lo faccia sentire come casa mia.
E non è qualcosa di immediato. È trascorso un mese da quando abbiamo messo
piede la prima volta qui e solo oggi ho preso martello e chiodi e ho appeso ai
muri alcune foto che mi porto dietro da una vecchia casa: Charlie Chaplin, Frida
Kahlo, Cristian e me.
Allo stesso modo l’odore di incenso. Sembra aprire i polmoni per lasciare entrare con più facilità l’atmosfera di agio. Perché quello che conta è sentirsi a proprio agio e che importa se usiamo qualche sotterfugio per ottenere il risultato?! La casa è quella in cui ci sentiamo a casa e basta poco per sentirsi a casa ovunque. È sufficiente sempre una sola ed unica cosa: la consapevolezza di sé e la voglia di restare se stessi anche in campo al mondo.
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